“Baarìa”: di tutto, di più

Baarìa / Bagheria è proprio lei: le stradette, i vialoni, la chiesa, i palazzacci, le case, la città e la campagna. E soprattutto la gente: com’era negli anni ’30, poi ’40, poi ’50, poi ’60… fino a oggi, ricostruendo con cura ambienti, abitudini, atmosfere. Insomma, nel suo ultimo film Giuseppe Tornatore realizza il classico “grande affresco”, con molta sensibilità e tanti momenti intensi.

Baarìa si avvale di una fotografia perfetta, sottolineata dalla struggente colonna sonora di Ennio Morricone. Ottima la recitazione, con un sacco di nomi noti tra i comprimari, da Raul Bova e Monica Bellucci al duo Ficarra & Picone in versione inedita. Scene dure, come i crimini di mafia. Scene divertenti, in particolare la gustosa trovata della “fuitina indoors”.

C’è proprio tutto. Forse troppo. A Tornatore, in questo omaggio alla sua terra presso Palermo, è mancato il coraggio di selezionare il materiale; si è sentito in obbligo di citare tutto il citabile. Così, se sono coerenti con la sceneggiatura la figura del poeta Ignazio Buttitta, o la presenza del dipinto risorgimentale dei fratelli Ducato nella sede del Partito comunista (attualmente l’opera si trova al Museo Guttuso), è invece assolutamente arbitrario l’inserimento dello stesso Renato Guttuso, la cui fulminea comparsata è irrilevante ai fini della vicenda. Il regista non voleva ferire i sentimenti di nessuno, a cominciare dai propri; chissà se la scrittrice Dacia Maraini se la prenderà per essere l’unica esclusa?

Il risultato è che spesso la storia è appesantita da episodi secondari, godibili in sé ma distraenti; e viceversa, alcuni collegamenti narrativi sono risolti in modo troppo spiccio, costringendo lo spettatore a riempire mentalmente i buchi. Difetti non nuovi nel cinema di Tornatore.

In definitiva, però, questo è un film bello e importante per vari motivi. In mezzo al trionfo delle immagini usa-e-getta, Tornatore costringe a riscoprire i ritmi cadenzati, alla paziente ricerca di tanti significati che si intrecciano. In un mondo dello spettacolo, anzi un mondo tout-court, malato di divismo, lui preferisce la storia corale, dove anche “il” protagonista in realtà è un tassello dentro un puzzle più grande. Non si tratta certo di un film rivoluzionario, nonostante il frequente sventolio di bandiere rosse (del resto è coprodotto da Mediaset e dalla sua corrispettiva libica collegata a Gheddafi); l’idealità politica si sposa sempre, con garbo, all’ironia; però il finale insegna a scoprire il dono inatteso che può nascere perfino da una “spaccatura” violenta.