Visto un albero visti tutti
Hanne, cameriera in un ristorante di Bergen
La Norvegia, specialmente per chi ama la natura e la cultura, è di una bellezza e un interesse travolgente. Non vorresti mai più tornare indietro. I musei di Oslo e il porto, il mercato del pesce di Bergen e le casette tipiche. Le cascate, le chiesette, il verde intenso dei boschi e dei prati, gli ottimi ristoranti di pesce. Quella pioggia, spesso intensa, che deve aver ispirato Ibsen e Munch e la gente gentile e sorridente. Ma se si abbandona la strada consueta battuta dal turista ci ritroviamo in una dimensione sconosciuta, ai “Confini della Realtà”, scoprendo un piccolo mondo bizzarro che non ci considera più turisti o viaggiatori, ma persone provenienti da un altro mondo da accogliere con curiosità, amicizia, ma anche con uno spirito “toscano”, pronto alla battuta e al paradosso, che non avresti mai creduto di trovare a queste latitudini. Ho avuto la fortuna di scoprire questa Norvegia nascosta dove lo spirito delle saghe nordiche rivivono nella realtà dei nostri tempi.
Un treno viaggiava da Oslo e Bergen e uno dei passeggeri si sente male. Poteva essere solo “mal di treno”, ma questo mio amico accusava anche dolori al petto. Il capotreno decide di far fermare il treno in una piccola stazione di un villaggio, dove ci assicura che c’è un ospedale. Scendiamo. E’ domenica. Cerco di alleviare le pene dell’amico, sdraiato su una panchina della stazione e intanto mi guardo in giro. Per la prima volta faccio caso al nome del paese: Nesbyen. Ho scoperto dopo che si trattava di un piccolo paese di circa 3500 abitanti, sembra con le temperature più alte registrate in Norvegia, discretamente conosciuto come località turistica, d’inverno per lo sci e in estate per le camminate, il golf e le nuotate. Ma quella domenica alla stazione di Nesbyen non c’era un anima. L’accogliente stazione di legno, pulita e con i fiori ai balconcini era aperta certo, ma mancavano le persone e anche intorno alla stazione e nelle case vicine non si vedeva movimento. Era surreale. Sembrava un paese appena abbandonato dagli abitanti. Ero l’unico che parlava inglese tra i due e rassicurato il mio amico, decisi di andare a cercare questo famoso ospedale, sperando di trovarlo al più presto possibile. Avrei potuto chiamare con il cellulare, ma il mio amico mi sembrava stesse meglio e l’ospedale non poteva essere così lontano in un paese così piccolo! Mi avventurai tra le graziose villette e camminai per un bel po’. Finalmente vidi due persone sotto il patio di una casetta, rigorosamente in legno. Appena mi avvicinai notai che erano molto anziani, avranno avuto entrambi più di novant’anni. Gli chiesi in inglese dove fosse questo famoso ospedale. Mi risposero sorridenti e gentilmente in norvegese. Non sapevano altra lingua. Dopo qualche scambio di battute il suono norvegese di alcune parole mi ricordò il tedesco e quindi capii che dovevo andare in centro e mi indicarono con la mano dove fosse. Ringraziai in tre lingue diverse m’incamminai. Altra sfilza di villette senza nessuno in giro e finalmente capitai di fronte a quello che riconobbi come un edificio pubblico, qualcosa che apparteneva al Comune di Nesbyen. La porta era aperta. Entrai. Vuoto. Poi vidi una corsia che sembrava d’ospedale, ma c’era qualcosa di strano. Andai avanti e cominciai a vedere decine di persone anziane che stavano in pigiama e in silenzio, uomini e donne, seduti sulle panche in corridoio o dentro le stanze, dove dormivano. Capii di aver trovato la casa di risposo comunale. Dopo un attimo, passando sorridente, chiesi ai vecchietti dove potevo trovare un responsabile e mi indicarono la sala delle infermiere. L’edificio era modernissimo, tutto in legno, e con le migliori attrezzature per la riabilitazione che avessi mai visto. Un particolare. Era domenica e non c’era un parente o un amico che venisse a trovare questi vecchietti. C’erano solo loro. Qualcuno mi rivolse la parola e io risposi e pian piano altri iniziarono a parlarmi, anche in inglese. Sembravo Gesù in mezzo ai lebbrosi, mi si avvicinavano per scambiare qualche parola. Mi guardavano come un alieno che forse poteva fare anche il miracolo di parlare con loro, di rombere la loro solitudine. Sono certo che quella domenica la passarono diversamente, con qualcosa da raccontarsi. Trovai l’infermiera, l’unica di turno, che mi disse che a Nesbyen non c’era un ospedale, ma solo un ambulatorio medico comunale con una dottoressa che presidiava la guardia medica. Parlai al telefono con la dottoressa e gli spiegai il caso pregandola di visitare il mio amico. Lei disse che avrebbe mandato l’ambulanza alla stazione e che io ritornassi pure indietro.
La seconda parte, diciamo così, di questa moderna saga norvegese, si apre quando l’ambulanza arriva, dopo di me, alla stazione. Il mio amico sta sempre meglio, probabilmente era veramente solo “mal di treno”. Saliamo in ambulanza e Giorgio, così si chiamava il mio amico, preferisce andare davanti con l’infermiere, che lo aveva sommariamente visitato e che fungeva anche da autista, per evitare altri malesseri da locomozione. Io apro il portellone e entro dietro trovandovi insieme alla più bella creatura mai incontrata, scesa direttamente dal cielo degli dei vichinghi. Era l’infermiera e il surreale riparte. Ci presentiamo. Mi dice in inglese che sono il primo italiano che vede nella sua vita e che non ha veramente mai visto stranieri, perché non si è mai allontanata da Nesbyen. Mi informa che si chiama Karen, ha 20 anni e poi, guardandomi negli occhi, aggiunge: “I want to do something with you”. Detto da una ragazza che, se vivesse dalle nostre parti, sarebbe eletta, a furor di popolo, Miss Italia e farebbe impallidire tutte le veline, conduttrici e attrici televisive viventi, la cosa potrebbe portare a conclusioni errate. La mia mente razionale comprese, non so come, quello che aveva voluto dirmi nel suo cattivo inglese. Infatti chiarì che voleva accordarsi con me su cosa dire alla dottoressa circa il mio amico. Lo disse semisdraiata sul lettino dell’ambulanza, non c’era molto posto all’interno, con il suo viso innocente e perfetto, le labbra delicate, i lunghi capelli biondi sparsi sulle spalle, la voce gentile e dolcissima, senza contare il resto. Una dea, forse figlia di Odino in persona. Era così avvolta nella sua perfetta bellezza, coperta dal camice bianco, ammantata nel suo candore ed esaltata dalla flessuosità del suo corpo, che quasi non riuscivo a concentrarmi su ciò che mi diceva. In poche parole chiedeva a me che cosa ne pensavo della malattia del mio amico, se aveva avuto un infarto oppure no. In quel caso avrebbero dovuto trasportarlo in elicottero in un altro ospedale specializzato e rimanere ricoverato per una settimana almeno. Dissi che secondo me non aveva avuto un infarto e che comunque la dottoressa lo avrebbe visto tra poco. Lei sorrise compiaciuta da quella mia risposta e scrisse un breve rapporto. Era la prima volta che sorrideva veramente e non dimenticai mai quel sorriso. Compresi che potevo morire quel giorno e aver vissuto per qualcosa. Aveva un sorriso così pieno di significati e sfumature, che nessun pittore avrebbe potuto mai coglierlo appieno e dipingerlo. Quando arrivammo alla casa del comune, dove si trovava l’ambulatorio, lei mi guardò, sorrise ancora e disse che si era trovata bene con uno straniero come me. I suoi occhi dal colore dei laghi norvegesi rimasero un attimo in più a guardare i miei. Ma questa è un’altra saga.
Conoscemmo, finalmente, la dottoressa Ingrid, alta e magra, simpatica, con un fare vagamente burlesco al limite della presa in giro. Ci fece entrare nell’ambulatorio e la saga norvegese, dell’assurdo e del paradosso, ricominciò. Esordisce con “chi è il malato e chi è l’interprete”. Comincio a pensare che sarà dura. Spiego i nostri rispettivi ruoli. Mi dice di dire a Giorgio, il malato, che capisce a stento qualche parola d’inglese, di appoggiarsi al lettino. Glielo dico e lui chiede se può sdraiarsi. Io traduco e “Doktor” dice che non le sembra così malato da doversi sdraiare. Un occhio clinico formidabile pensai. Poi aggiunse che lo avrebbe visitato e io traduco. Non lo guarda neppure in faccia ne si avvicina al povero Giorgio e comincia a chiedermi che ne penso io della malattia del mio amico. Un paese formidabile la Norvegia dove dottori e infermiere chiedono ad amici e parenti pareri medici sul malato. Io racconto al “Doktor” quello che so e che ho visto, mentre il mio amico mi chiede quando sarà visitato. Io gli dico che lo sta già visitando. Lui mi guarda come se fossi pazzo. Alla fine “Doktor” sentenzia che non è un infarto (!) ma solo mal di treno e mi domanda se dobbiamo continuare il viaggio. Rispondo di si, che dobbiamo prendere il treno successivo per Bergen. Con un sorriso malizioso, strizzandomi l’occhio, mi dice che ha una cura per questo “pauroso” italiano. Ma lo dice senza vera offesa, come un livornese parlerebbe male di un pisano. Guarda nella farmacia dell’ambulatorio, dicendo che non sa esattamente che cosa c’è dentro, che lei è qui come guardia medica per l’estate e che lo fa per stare in vacanza, pagata, in questi bei posti (tutto il mondo è paese). Continua velocemente a commentare che lei è in realtà un aiuto chirurgo plastico a Oslo e che di mal di treno ne capisce poco. Il mio amico mi guarda chiedendo la traduzione. Io gli rispondo pietosamente che va tutto bene e che “Doktor” gli darà qualcosa di efficace contro il mal di treno e che non ha un infarto. “Ma se non mi ha neanche visitato!” sbotta Giorgio. Non ti preoccupare gli dico. “Doktor” ha grande esperienza (!), l’occhio clinico e ha visto subito che non hai un infarto sennò a quest’ora saresti morto. Giorgio è dubbioso ma sta zitto. La parte migliore arriva quando “Doktor” tira fuori una supposta, che dice di prendere mezz’ora prima di partire e spiega, mimando in faccia a Giorgio, le istruzioni per l’uso, in modo teatrale. Giorgio mi guarda sbigottito e dice che anche in Italia abbiamo le supposte. Io traduco e lei mi sorride dicendo che è la procedura standard con i pazienti!
Ci salutiamo chiedendoci se era l’ambulatorio comunale o l’ospedale psichiatrico, non prima di aver pagato il ticket, visita e supposta compresa. Un taxi ci riporta alla stazione. Riusciamo ad arrivare a Bergen nel tardo pomeriggio. Giorgio sta bene durante il viaggio, la supposta ha fatto effetto. Penso che “Doktor” è veramente un genio della medicina, sarà perché vive nella terra dei Nobel. Andiamo in hotel e poi in un ottimo ristorante di pesce dove incontro Hanne, la cameriera degli alberi. Giorgio mi chiede una traduzione della mia conversazione con Hanne. Mi viene spontaneo di mimare la foresta con tanti grossi alberi tutti uguali. Lui mi guarda in un silenzio eloquente e poi dice che questo paese è bellissimo, ma ci deve essere una vena di pazzia che i locali trasmettono anche ai viaggiatori. Io rispondo che è un paese di saghe e leggende e che noi stiamo vivendo in una di esse e come in qualsiasi storia siamo ormai parte di questo teatro dell’assurdo. Avevo ragione, infatti, la saga continuerà per molti giorni, tra paesaggi meravigliosi e personaggi pittoreschi e incredibili.