Dalí sottotono? No, sottovoce

Due ore e 20 minuti di coda al freddo e al gelo, il 4 gennaio, per poter entrare alla mostra di Salvador Dalí a Palazzo reale di Milano. I presupposti per un Grande Evento ci sono tutti: dopo oltre mezzo secolo, dopo la mitica esposizione del 1954, l’intramontabile genio di Dalí torna nel capoluogo lombardo. E il pubblico, a quanto pare, non manca. E tuttavia, tante cose sono cambiate da allora…

dali2A chi da decenni segue l’arte del pittore surrealista catalano, la mostra consente di ammirare opere poco conosciute, raramente esposte o riprodotte nei cataloghi, in particolare con numerosi esempi degli ultimissimi anni di Dalí, che davvero meriterebbero maggiore attenzione. Con una chicca: il breve cartone animato che Walt Disney volle realizzare con il pittore spagnolo nel 1946, e che non vide mai la luce; è stato finalmente prodotto nel 2003, e mostrato in Italia per la prima volta proprio qui, adesso, a Milano.

Per contro, si nota qualche carenza. Mancano praticamente tutte le opere più importanti, a partire quelle degli anni ’20-30 ossia il periodo surrealista in senso stretto, prima che Dalí venisse sconfessato dal fondatore del Surrealismo, André Breton. Del tutto assenti anche le opere degli anni ’40-50 appartenenti alla fase della Mistica nucleare, che Dalí considerava il proprio risultato più importante, e che erano state appunto al centro della mostra milanese del 1954. Inoltre, l’itinerario proposto dai curatori (Paesaggi storici, Paesaggi autobiografici, Paesaggi dell’assenza) appare abbastanza artificioso, raccogliendo in “grossi contenitori generici” quadri che si riferiscono a contenuti eterogenei. L’impressione negativa è che siano stati racimolati un certo numero di dipinti e poi si sia cercato di classificarli in qualche modo.

L’impressione positiva invece è… Dalí. Tra le sale espositive di Palazzo reale sbucano alcuni quadri che danno il meglio di Dalí proprio perché non intendevano darlo. Niente effetti speciali e turbinii laccati, ma immagini silenziose, meditative, inquietanti eppure luminose, il cui significato sfugge nel momento stesso in cui si cerca di definirlo. Un trittico gigantesco occupa un’intera parete, con un paesaggio ocra immenso, vuoto, più vuoto di quelli di De Chirico (padre involontario della pittura surrealista); sullo sfondo una torre massiccia e un paesaggio; in primo piano una bambina salta la corda, e la sua ombra ha la forma di una ruota di bicicletta, di una campana. Malinconica allegria. Presagio senza nome.

dali3O cinque contadine tratte dall’Angelus di Millet, identiche, immobili nella preghiera serale nei campi, mentre i loro corpi si scompongono come nella pittura pointillista, ma con bagliori elettrici. La risurrezione, la gloria della carne? Però per Dalí quella contadina era anche una “mantide religiosa”, che prega prima di uccidere. Carne fremente, ossessiva; carne divina.

Oppure ancora, il comparire di un volto femminile greco su un paesaggio infinito, tra laghetti rotondi, cipressi, ali d’angelo, un serpente e boccette di profumo a forma di labbra. Nuova Eva in un paradiso terrestre in cui convivono la bellezza classica e quella commerciale.

Intanto, da un video Dalí lancia provocazioni un po’ stantie in un inglese terrificante. Più in là, i visitatori si aggirano per una “stanza a forma di faccia di Mae West” che si poteva onestamente evitare. Ma in mezzo a questo chiasso inutile che ancora circonda come una maledizione la memoria di Dalí, il suo Genio si aggira sussurrando. Sì. Meglio un’opera secondaria di Dalí che un capolavoro di qualunque altro pittore del XX secolo.